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Il dramma di Marcinelle

8 AGOSTO 1956 ORE 8:20

MARCINELLE
BELGIO

Erano lì già da un po’ di anni i nostri minatori.

In quel posto sperduto della Vallonia, in Belgio, a Charleroi.

Lavoravano nel sobborgo operaio della cittadina chiamato Marcinelle.

Loro, come i tanti italiani presenti nelle miniere di mezza Europa negli anni ’50, erano invogliati dal bisogno e dal governo ad andare a lavorare all’estero.

Il viaggio verso il Belgio era pagato dallo Stato italiano, in virtù del patto bilaterale concluso con il Belgio nel 1946.

L’Italia si impegnava ad avviare 5.000 lavoratori l’anno  nelle miniere belghe.

Il Belgio corrispondeva al nostro Paese una quantità di carbone per le acciaierie.

I minatori vivevano in baracche ricavate dagli alloggi rinvenuti negli ex lager nazisti, venivano sottoposti ad accuratissime e severe visite mediche.

Le condizioni di lavoro erano brutali.

Scendevano in miniera fino a 1350 mt. di profondità per estrarre il carbone. La temperatura raggiungeva i 42 °C.

Le gallerie erano alte 3 metri e larghe 3 in media. Si era costretti a lavorare, però, anche in cunicoli ben più angusti, ai limiti della sopportabilità umana.

Il materiale utilizzato veniva spostato con carrelli trainati da cavalli e asini. Il carbone veniva portato alla superficie con un ascensore a quattro piani.

Per scavare le gallerie veniva usata la dinamite. Attraverso il buco praticato poteva passare il gas letale (grisù). La lampada a olio, simbolo dei minatori, segnalava loro, con lo spostamento della fiamma, la presenza o l’assenza del gas.

Molti di loro, dopo una vita di durissimo lavoro, spesso facendo i pendolari tra l’Italia, dove erano rimaste le famiglie, e il luogo di lavoro, oppure dopo essersi definitivamente stabiliti in Belgio, in Svizzera, in Germania, morivano prematuramente, sovente alle soglie dell’agognata pensione, per malattie respiratorie, silicosi perlopiù e neoplasie legate al lavoro in miniera effettuato per anni senza alcuna protezione.

Quella mattina dell’8 agosto del 1956 a Marcinelle, nella miniera di carbone Bois du Cazier ebbe luogo uno dei più terribili incidenti minerari della storia recente.

Alle 8:10 un macchinista addetto ad una delle gabbie del pozzo di estrazione si accorse che essa si era improvvisamente arrestata e non rispondeva più ai comandi.

Il carrello aveva tranciato i fili della corrente elettrica e della condotta dell’olio.

Il corto circuito provocò un incendio che si propagò rapidamente ai cantieri sotterranei.

Dei 275 lavoratori presenti in miniera solo 13 riuscirono a salvarsi, gli altri andarono incontro ad una fine orrenda.

Morirono asfissiati, non avendo in dotazione neanche le maschere antigas.

Le ricerche e i soccorsi andarono avanti per giorni, ma senza risultati.

262 i morti, 136 gli italiani, 7 i molisani.

Fu aperto un processo per accertare le responsabilità, ma i dirigenti della società mineraria vennero assolti.

La colpa fu attribuita all’addetto alla manovra del carrello.

I lavori nella miniera di Marcinelle ripresero nell’aprile del 1957 e continuarono ancora per altri 10 anni e fino al 9 dicembre del 1967 quando venne definitivamente chiusa.

L’ultima miniera della Vallonia, quella di Roton, continuò a lavorare fina al 30 settembre 1984 grazie anche ad una forte presenza di manodopera italiana.

I morti di Marcinelle non furono purtroppo gli unici italiani periti in quegli anni nelle miniere del Belgio.

Complessivamente dal 1947 al 1963 furono 867 i nostri connazionali che pagarono con la vita le proibitive condizioni di lavoro all’interno delle miniere.

7 furono i molisani che l’8 agosto del 1956 morirono nella miniera di Bois du Cazier

–       CASCIATO FELICE  – S. ANGELO DEL PESCO

–       CICORA FRANCESCO – S. GIULIANO DI PUGLIA 1908

–       GRANATA FRANCESCO – FERRAZZANO 1916

–       GRANATA MICHELE – FERRAZZANO 1913

–       MOLITERNO MICHELE – FERRAZZANO 1917

–       NARDACCHIONE PASQUALE – S.GIULIANO DEL SANNIO 1930

–       PALMIERI LIBERATO – BUSSO 1920.

Due di essi, Granata Francesco e Michele erano fratelli.

La salma di Francesco Cicora, invece, coma quella di tanti altri, non è stata mai ritrovata.

I suoi cari devono accontentarsi di portargli dei fiori su una delle tante lapidi presenti nel cimitero di Marcinelle che recano la dicitura “INCONNU”(sconosciuto).

UN CAMMINO NELLA MEMORIA
Un lungo e certosino lavoro nel ricordo collettivo della tragedia di Marcinelle ha portato a realizzare negli anni 2001 e 2002 un tributo importante alla memoria dei caduti molisani.

Il Primo Maggio del 2001, grazie all’interessamento delle istituzioni e di tanti molisani comuni, in particolare dei Signori Anna Di Nardo (Console Regionale dei Maestri del Lavoro del Molise) e Giuseppe Ruffo, il Governo ha conferito ai sette minatori nostri corregionali scomparsi a Charleroi la Stella al Merito del Lavoro.

Nel 2002 il Consiglio dei Ministri ha dedicato l’8 agosto di ogni anno al ricordo del sacrificio del lavoro italiano nel mondo.

Nello stesso anno, proprio l’8 agosto, grazie al Progetto Marcinelle portato avanti dal Consolato Regionale del Molise dei Maestri del Lavoro e dalla Federazione Maestri del Lavoro d’Italia, patrocinato dal Ministero degli Italiani nel mondo, è stata donata al Museo della Memoria che si trova proprio nella miniera una campana fusa dalla Pontificia Fonderai Marinelli di Agnone.

La campana porta il nome di Maria Mater Orphanorum, in ricordo dei 406 orfani dei minatori.

Alle 8:10 di ogni anni, l’8 agosto, la campana suona 262 rintocchi per i minatori deceduti, altri 10 per i caduti di tutte le miniere nel mondo, infine suona a distesa in onore delle vedove e dei figli per richiamare le genti a meditare su quanto accaduto 61 anni fa a Marcinelle.

 

L’emigrazione dal Molise

 L’emigrazione è l’elemento più omogeneo della storia recente del Molise e ne ha profondamente contrassegnato l’evoluzione sociale.

Si possono agevolmente distinguere tre periodi all’interno del flusso migratorio della regione, come per quello dell’intera nazione:

  1. 1870/1890
  2. 1900/1915
  3. 1945/1970 – 80.

Come dato di insieme si può affermare che, in base ai numeri ufficiali, disponibili dal 1876 in poi, gli espatri dal Molise fino agli anni ’70 – ’80 del ‘900, sono quantizzabili  in circa 600.000.

Un dato che, però, è limitato, poiché non tiene conto degli espatri avvenuti prima del 1876, delle numerosissime partenze clandestine e delle visite temporanee a parenti già emigrati che venivano poi trasformate in installazioni permanenti.

La metà degli esodi ufficiali è avvenuta durante la prima grande ondata migratoria (1870 – 1915), un terzo nel periodo che va dal 1945 al 1970, il resto nell’intervallo tra le due guerre mondiali e dagli anni ’70 in poi.Sempre in via generale, l’emigrazione molisana si connota come manifestazione precoce rispetto alle altre aree italiane coinvolte, diffusa in maniera capillare su tutto il territorio regionale, originale nelle sue variegate e concorrenti motivazioni.

Riguardo a queste ultime appare utile soffermarsi su alcuni elementi che più di altri hanno contribuito alla “diaspora”.

Innanzitutto vi era nei molisani di fine ‘800 una già forte predisposizione alla “pendolarità” data dalla pratica secolare della transumanza.

Non era perciò inconsueto, anzi al contrario era la regola, che gli uomini fossero lontani da casa per procurarsi il sostentamento per vivere.

La situazione economica e sociale già difficile del Molise subì un notevole aggravamento con l’unificazione del Regno d’Italia che accentuò l’arretratezza della sua struttura basata essenzialmente sul sistema silvo – pastorale. Un sistema che entrò in crisi nella fase della “piemontesizzazione” del sud Italia.

Il background fattuale e culturale della regione, organizzata istituzionalmente nell’unica Provincia di Campobasso, si scontrò con scelte legislative che quando vi furono, si rivelarono sbagliate e lontano dalla peculiarità molisana e del Mezzogiorno d’Italia.

Tutti elementi che videro accrescere nei molisani la determinazione di compiere l’unica scelta che a loro appariva possibile: la fuga dal bisogno e la costruzione in terre lontane di un futuro migliore.

Un altro elemento caratterizzante dell’esodo molisano, riscontrabile soprattutto nel primo periodo analizzato è costituito dalla scelta dell’abbandono per motivazioni politiche.

Tra i primi ad emigrare furono i contadini, poi gli artigiani ed alcuni professionisti.

Alla fine dell’800, spentosi il fenomeno del brigantaggio e dopo l’azione di repressione del nuovo Stato borghese, si formarono soprattutto nell’Alto Molise oltre che nelle aree confinanti con la Puglia, le prime correnti socialiste che si integrarono con le rivendicazioni sociali già presenti.

Agnone, non a caso, è considerata la patria dei pionieri dell’emigrazione molisana. Nel 1870 i suoi abitanti furono i primi a partire per l’Argentina. Al contempo la città che ha dato al flusso migratorio il maggior contributo quantitativo.

Attualmente Agnone ha 6.000 abitanti e si calcola che circa 20.000 agnonesi siano sparsi per il mondo.

Anche per questi motivi, oltre che per la compattezza della comunità agnonese all’estero la Prima Conferenza Regionale dell’Emigrazione si è svolta proprio ad Agnone nel 1986.

Tornando ai motivi politici dell’espatrio, questi connotarono la migrazione molisana come percorso di inserimento dei nostri conterranei nei flussi del mercato mondiale del lavoro e nel filone della ricerca di condizioni di vita più adeguate al mondo moderno.

Modelli culturali e sociali, questi, che approderanno, poi, nella terza ondata migratoria del secondo dopoguerra.

 

In treno verso l’Europa. Dal 1945 in poi.

Se i bastimenti furono il simbolo dell’emigrazione dalla fine dell’ottocento e fino alla prima guerra mondiale, la terza grande ondata migratoria che ebbe inizio nel secondo dopoguerra vide nel treno il suo emblema di viaggio.

La terra promessa si spostò sul continente europeo, anche perché i Paesi d’oltreoceano iniziarono una politica di limitazione degli ingressi di immigrati.

Il treno e la valigia di cartone per espatriare da un Paese da ricostruire, devastato dalla guerra, senza solide infrastrutture e senza materie prime, soprattutto.

Per questo motivo dagli anni Quaranta in poi gli emigranti italiani, anche tramite l’intervento regolatore del governo, che vedeva nell’emigrazione una risorsa fondamentale per la ricostruzione, scelsero il continente europeo e le sue miniere per garantirsi un avvenire migliore.

La Francia, la Germania, il Belgio.

Queste nazioni, con la lenta ripresa economica, dopo aver impiegato tutta la manodopera disponibile sul mercato del lavoro interno, aprirono le porte ai lavoratori degli altri Stati. Mai come nel dopoguerra l’emigrazione di massa diventa una politica voluta, sollecitata e fortemente controllata dallo Stato in quanto valida soluzione a numerose questioni sia di politica interna che esterna. In Italia era forte il bisogno di placare la crescente tensione sociale dovuta principalmente alla povertà, collocando la forza lavoro italiana in un mercato ricco di domanda. Questo sbocco fu trovato grazie agli accordi bilaterali, vero e proprio scambio tra uomini e carbone. L’equazione pensata dal governo era semplice: forze lavoro giovani, sane, produttive in cambio di materie prime, di cui il Bel Paese scarseggiava. Così vennero conclusi accordi con i maggiori paesi d’emigrazione quale l’Argentina, l’Australia, ma in modo particolare con i vicini paesi europei, il Belgio, la Francia, la Svizzera: tutti si assicuravano la loro quota controllata di lavoratori[1]. In questo modo l’Italia, che usciva perdente dal conflitto, poteva recuperare prestigio internazionale, vantandosi di aver contribuito, grazie alle enormi masse di forza lavoro messe a disposizione, alla ricostruzione dell’Europa liberata.  Solamente in due anni, tra il 1946 e il 1947, partirono per le miniere della Francia e del Belgio, quasi 84mila italiani, la maggior parte provenienti dal Veneto, dalla Campania e dalle regioni del Sud. L’incredibile flusso di “rimesse” di denaro inviate in Italia da questo esercito di lavoratori, costituiva una ricchezza irrinunciabile che permise all’Italia di pagare i debiti internazionali, di acquistare materie prime e avviare la rinascita economica. Il rovescio della medaglia era costituito da un’incapacità delle classi dirigenti italiane di progettare un piano per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana.

Invece di collocare le proprie forze lavoro in una pianificazione nazionale dell’economia, si preferì la via tradizionale dell’emigrazione.

Così mentre in Italia l’emigrazione provocava degli squilibri demografici e disfunzioni nelle economie regionali, in altri paesi, grazie all’apporto lavorativo degli italiani, venivano riequilibrate tutte le attività economiche della vita collettiva.

I migranti italiani nel secondo dopoguerra hanno dato un contributo fondamentale alla costruzione dello stato sociale in Europa e allo sviluppo delle solidarietà interculturali, grazie al loro impegno sindacale, ai loro sacrifici di sangue e di sudore.

 

[1] Per maggiori informazioni visitare il sito http://www.cestim.it/ con approfondimento “Panorama storico dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra. Le migrazioni verso Belgio, Francia e Germania.”

 

Politica ed emigrazione

L’emigrazione fu trattata dai vari governi italiani in maniera non univoca e discontinua.

All’inizio il governo vide favorevolmente questo fenomeno che da una parte allontanava il pericolo di esplosioni sociali e dall’altra contribuiva, tramite le rimesse dall’estero, al riequilibrio del bilancio dello Stato.

Giulio Tesi, ambasciatore italiano a Buenos Aires, scriveva nel 1871 che l’emigrazione era un bene, che, se saputo amministrare, avrebbe potuto dare dei grossi benefici a tutti, e sintetizzava la posizione del Governo in un motto: “Lascia fare, lascia passare”.

Non mancava, però chi tra gli amministratori periferici, i Prefetti in particolare, non sottolineasse il pericolo per l’economia soprattutto del meridione rappresentato dallo spopolamento delle campagne.

Un primo intervento legislativo si ebbe nel 1888, con il Governo Crispi, con una disposizione che allineava in parte l’Italia alle politiche migratorie del resto d’Europa, riscattando l’emigrante anche dalla diffidenza quasi “poliziesca” con cui era stato guardato dallo Stato fino ad allora.

La legge, infatti, sancì per la prima volta la libertà di emigrare e riconobbe agli agenti e ai subagenti il diritto di reclutare gli emigranti.

Non prevedeva, però, alcun intervento del governo per tutelare gli emigranti stessi con provvedimenti e istituzioni di assistenza, contrariamente a quanto stabiliva la legislazione dell’epoca in Germania e in altri Stati europei.

Quando, poi, iniziarono ad essere tristemente note le reali condizioni degli emigranti all’estero vi fu un ulteriore intervento legislativo nel 1901.

Tale intervento condizionò tutta la legislazione successiva e si basava su alcuni punti importanti. Prima di tutto si vietava di fatto l’attività degli agenti, andando così a tutelare la partenza ed il viaggio stesso. Gli agenti vennero sostituiti dai vettori, ovvero dagli armatori o noleggiatori. Gli interventi assistenziali e di tutela vennero delegato ad associazioni private laiche e religiose. Si distinsero due diverse tipologie di emigrazione, una continentale ed una transoceanica. Infine si creò il Commissariato dell’Emigrazione, dipendente dal Ministero degli affari esteri ma dotato di autonomia propria. Questo organismo tecnico aveva la possibilità di da vita ad una propria legislazione e normativa ed era autonomo a livello finanziario.

Nel secondo dopoguerra l’atteggiamento dei governi italiani impegnati nella difficile ricostruzione economica e sociale del Paese fu ancora una volta differente.

Si scelse la strada dell’accordo bilaterale con i Paesi che avevano bisogno di manodopera per disciplinare ed organizzare il flusso migratorio.

Emblematica la legge varata il 19 ottobre del 1945.

Si trattava di una intesa fra il governo italiano con quello belga che si impegnava a corrispondere all’Italia per le sue acciaierie 24 quintali di carbon fossile all’anno per ogni italiano che si recava ad estrarlo nelle sue miniere.

L’esecutivo italiano ampliò l’accordo e lo sottoscrisse il 23 giugno del 1946 per favorire l’invio in Belgio di un contingente di 5.000 lavoratori.

Di fatto, però, dal 1946 al 1952 gli emigrati che prestarono la loro opera nelle miniere belghe furono ben 48.598.

Dopo questo breve excursus storico sul rapporto intercorrente tra politica e migrazione si può porre ora il proprio focus attentivo su ciò che ha riguardato più strettamente la nostra Regione.

In tempi recenti, infatti, anche la Regione Molise si è dotata di leggi specifiche in materia di emigrazione.

La Legge Regionale 12 del 1975 ha istituito la Consulta e il Fondo Regionale dell’Emigrazione. È stato successivamente disciplinato il settore degli interventi in favore dei molisani emigrati e residenti all’estero con la legge 12 del 1989.

Infine, nel 2004 a Ferrazzano è stato istituito il “Museo Regionale dell’Emigrazione – Arturo Giovannitti”.

È, inoltre, in via di approvazione la nuova Legge Regionale sull’emigrazione.

 

SITOGRAFIA:

  • http://cronologia.leonardo.it/storia/a1880a.htm

Monongah

6 DICEMBRE 1907

MONONGAH
WEST VIRGINIA – USA

Nella cittadina mineraria della Virginia dell’Ovest il 6 dicembre del 1907 alle ore dieci e trenta del mattino si consumò una delle più gravi tragedie sul lavoro della storia americana.
La miniera di carbone e ardesia di Monongah era rimasta inattiva per due giorni, ferma per la festività di San Nicola.
Il 6 dicembre, alla ripresa del lavoro, una serie di esplosioni fecero crollare le miniere n°6 e n°8, gestite dalla Fairmount Coal Company.
Un’ipotesi che appare molto fondata è che non furono messi in funzione gli impianti di areazione come dovuto.

L’inattività della miniera aveva così provocato un forte accumulo di gas e alla prima scintilla ciò causò le esplosioni.

Un vero e proprio terremoto scosse la terra per 13 chilometri,
spazzò case, strade, sradicò addirittura le rotaie della stazione ferroviaria locale.

I minatori furono investiti in pieno dallo scoppio.

Fu una vera e propria strage.

Un misto di polvere di carbone e gas metano trasformò i due tunnel  adiacenti in un inferno senza via di scampo.

Il dato ufficiale dei morti parla di 361 vittime, di cui 171 italiani, molti molisani (sono state riconosciute in modo ufficiale all’incirca 87 persone).

Soltanto 362 vittime ebbero un nome e il diritto alla lapide. Gli altri ebbero sepoltura comune, o rimasero sotto il carbone.

Ma le stesse cronache americane dell’epoca riferiscono di cifre ancora più alte e spaventose.

Una corrispondenza da Washington del 9 marzo del 1908 sostiene che “il bilancio dello scoppio della miniera di Monongah avrebbe raggiunto un totale di 956 vittime, la maggioranza delle quali era italiana…”.

Le vittime italiane, dunque ammonterebbero a circa 500.

Il numero, però, resterà sempre imprecisato poiché neanche un terzo dei minatori risultava registrato.

Inoltre, essi portavano con sé giù in miniera fino a 500 metri di profondità altre persone, i figli, i fratelli, gli amici.

Persone che, ovviamente non venivano dichiarate e registrate.

Questo perché erano pagati a cottimo: più carbone estraevano più soldi guadagnavano.

I visi anneriti dal carbone, gli abiti dimessi, le condizioni disumane in cui estraevano il carbone, le misere paghe sono la testimonianza di un’esistenza sacrificata e votata elusivamente al duro lavoro.

Gli adulti registrati guadagnavano 10 centesimi l’ora, i ragazzini ricevevano una mancia legata alla quantità di carbone che portavano in superficie.

Vivevano in baracche di legno ricoperte di carta catramata, in dieci per stanza, pagando anche dieci dollari al mese, metà dello stipendio.

Con la loro immolazione, i minatori di Monongah, cinquant’anni prima della catastrofe di Marcinelle nel cuore dell’Europa, divennero l’icona del sacrificio dei nostri lavoratori, costretti ad emigrare per poter sopravvivere.

Sono ormai passati più di cento anni da quel tragico venerdì. Per molto tempo i morti di Monongah sono stati soltanto i nomi, oggi erosi dal tempo, incisi sulle lapidi nel piccolo cimitero del paese.

Sono stati seppelliti l’uno accanto all’altro su una collinetta verde. Gli emigranti italiani furono, ancora una volta, beffati da un destino avverso che li ha visti morire nel piccolo paese dal nome indiano-americano, Monongah, che nelle lingua della tribù Seneca significa “Fiume dalle acque ondulate”, un nome dolce di una bellezza poetica.

Erano uomini che avevano attraversato l’Oceano accompagnati da sogni e speranze, come si usa dire, grandi come le onde che spingevono le navi.

E’ importante ripercorrere le vicende di questa catastrofe per far vivere il ricordo di ciò che è stato, e che ha tinto di nero le pagine della storia dei migranti italiani come carbone.

 

SITOGRAFIA

–     http://www.alpcub.com/monongah.htm

–     http://www.repubblica.it/2007/12/sezioni/esteri/marcinelle-america/marcinelle-america/marcinelle-america.html

 

REGIONI E COMUNI DI RESIDENZA DEI MINATORI DECEDUTI A MONONGAH IL 6/12/1904.

 

ABRUZZO

o  Atri                             (TE)               2

o  Canistro               (AQ)              1

o  Civita D’Antino    (AQ)              2

o  Civitella Roveto    (AQ)              5            Totale    14

o  Pescocostanzo     (CH)              1

o  Sulmona              (CH)              2

o  Vasto                   (CH)              1

 

BASILICATA

o  Noepoli                   (PZ)        6            Totale    6

CALABRIA

o  Castrovillari             (CS)        2

o  Caccurri                   (CZ)        1

o  Gioiosa Ionica         (RC)        1

o  S.Giovanni in Fiore         (CZ)        33          Totale    42

o  S. Nicola dell’Alto    (CZ)        4

o  Stromboli                (CZ)        1

 

CAMPANIA

o  Guardia Piemontese   (CE)        1

o  Morcone                    (BN)        1            Totale    14

o  S. Croce del Sannio     (BN)        12

LAZIO

o  Ponza                         (LT)        1            Totale    1

 

PIEMONTE

o  Premia                        (NO)       1            Totale    1

 

PUGLIA

o  Bitonto                        (BA)        1            Totale    1

 

VENETO

o  Vallesella                    (NO)       1            Totale    1

 

Toquinho

Musicista brasiliano, nasce da una famiglia di origine italiana, il nonno, infatti, era nativo di  Toro in provincia di Campobasso, emigrato in Brasile, con il nome di Antonio Peci Filho.

Lo pseudonimo con il quale è divenuto poi noto al mondo, gli deriva dal diminutivo con cui sua madre lo chiamava quando era un bambino: “meu toquinho de gente”.

Il nome Toqunho gli rimase e si andò ad identificare come uno dei maggiori ed espressivi artisti della musica popolare brasiliana.

Nato a San Paolo del Brasile nel 1946, ha iniziato a studiare la chitarra quando aveva quattordici anni e da quel momento non si è più separato da questo strumento, che gli ha permesso di vivere una brillante carriera, piena di successi e di grandi collaborazioni con altri importanti musicisti.

In particola modo si ricorda Vinicius de Moraes, con il quale incise sedici dischi.

Gli anni settanta lo videro allontanarsi dal Brasile per sfuggire alle pesanti conseguenze del colpo di Stato militare che limitava la libertà di espressione. Assieme a Chico Buarque approdò in Italia che divenne la sua seconda patria. La sua vita, ma anche la sua carriera, infatti, sono ricche di ricordi italiani.

In Italia si è fatto conoscere grazie alla collaborazione con Sergio Endrigo nel 1969, suonando nel disco “La vita, amico, è l’arte dell’incontro”, realizzato da Endrigo, Vinicius de Moreas e Giuseppe Ungaretti. È questa la sua prima incisione italiana.

Poco dopo, lavora per Ennio Morricone, realizzando il disco “Per un pugno di samba” di Chico Buarque de Hollanda.

Nella sua esperienza italiana non si può nominare il successo ottenuto cantando con Ornella Vanoni. Con lei ha inciso “La voglia, la pazzia, l’incoscienza e l’allegria”.

Il musicista stesso parlando di questa collaborazione, dirà: “Non conosco cantante italiana, che abbia cantato meglio di Onella Vanoni in La voglia, La pazzia, l’incoscienza, l’allegria”.

Nel 1983 esce l’album Acquarello, scritto insieme a Maurizio Fabrizio e Guido Morra.

Il successo è immediato e strepitoso.

Qualche anno dopo, nel 1990, partecipa invece al Festival di Sanremo, cantando in portoghese la canzone di Paola Turci, Ringrazio Dio. Il titolo in portoghese era stato tradotto in “Nas asas de um violão” (sulle ali di una chitarra).

È stato anche protagonista in due tournée con Fred Bongusto, nel 1993 in Italia e nel 1996 in Brasile. Nel 2003 la sua carriera lo porta a lavorare con Grazia Di Michele.

Toquinho è ormai da anni entrato di diritto nella storia della musica popolare brasiliana e non solo. Il suo arpeggio di chitarra acustica non si ferma ad una semplicità musicale, ma si trasforma in un soffio di voce ispirata.

Il musicista affonda le sue radici nella terra brasiliana e ne riporta fedelmente e con grande passione i ritmi e i suoni, dei quali il Brasile ne è ricchissima.

Nel suo “Acquarello” musicale, inoltre, compare qualcosa in più. Non solo rispecchia quello che è il sound brasiliano, ma lo arricchisce con il suo stile, che prende note quasi pop colorandosi con un leggero gusto di jazz.

Questa atmosfera particolare e caratteristica dell’artista si compone quindi di note semplici, che rendono le sue creazioni ancora più apprezzabili al grande pubblico.

In suo onore, nel paese natale dei nonni, Toro, si organizza il Toquinho Toro Festival, che nel 2010 è stato patrocinato dal Ministero per i Beni Culturali e dall’Ambasciata del Brasile a Roma. Un evento che in genere ricade nel mese di Luglio di ogni anno e che attira l’attenzione di molti artisti e di un pubblico vasto e variegato.

In una intervista Toquinho afferma: “l’Italia sarà sempre presente sulla mia agenda lavorativa e su quella dell’affetto”.

La biografia di Toquiho è curata da Joao Carlos Pecci, scrittore molto noto e apprezzato in Brasile, nonché fratello dello stesso musicista.

Altro libro da segnalare è quello di Giancarlo Mei, Canto Latino. Origine, evoluzione e protagonisti della musica popolare del Brasile, con una prefazione di Sergio Bardotto e postfazione di Milton Nascimento, Nuovi Equilibri editore 2004.

Il sito di riferimento è:

http://www.toquinho.com.br/

 

SITOGRAFIA:

 

 

 

 

 

Tony Vaccaro

Nasce negli Stati Uniti a Greensburg (Pennsylvania) il 4 Dicembre del 1922 da una famiglia di emigranti molisani uno tra i maggiori fotografi del mondo,

Tony Vaccaro, nome d’arte di Michelantonio Celestino Onofrio Vaccaro, rientra in Molise all’età di 7 anni, insieme alla madre e la sorella per una visita ai parenti.

La sua vita, però, prende un’improvvisa deviazione e il soggiorno, che doveva essere di pochi giorni a Bonefro, si trasformò in una permanenza di anni nel paesino di origine dei genitori.

La causa scatenante fu la morte improvvisa e oscura prima della madre e poi del padre a poca distanza l’uno dall’altro.

Questo drammatico evento lo terrà fermo nel Molise fino ai 17 anni, quando lo Stato americano lo richiama per il servizio militare.

A Bonefro, pertanto, trascorre l’adolescenza di Tony Vaccaro. Un’esperienza esistenziale  da cui nasce un profondo legame tra lui e la «sua terra» molisana e tra lui e gli uomini di quella terra, segnando non solo la sensibilità dell’uomo, ma anche una parte importante della sua futura produzione artistica.
Vaccaro comincia a interessarsi di fotografia quando frequenta il liceo.  È tra i primi  utilizzare una tecnica fotografica basata sulla velocità di scatto della macchina nel tentativo di cogliere le “reali” e spontanee espressioni dei soggetti.

Nel 1939 torna negli Stati Uniti per adempiere al suo dovere. Tornato nel nuovo mondo si fermerà a New Rochelle (NY), presso parenti, dove frequenta alcuni corsi di studio, tra cui quello di fotografia.

Da questo momento in poi la sua passione e il suo amore verso quest’arte cresceranno sempre di più. Proprio grazie a questa sua inclinazione, chiamato alle armi, ottiene di svolgere nella sua compagnia il ruolo di fotografo.

Un’esperienza forte e crudele che, non solo gli permetterà di accumulare un patrimonio fotografico notevole e di grande valore, ma che lo segnerà a livello personale, facendone il testimone privilegiato dell’atrocità umana.

Con l’US-Army, all’inizio della seconda guerra mondiale, ritorna in Europa.

Lo sbarco in Normandia è il primo evento drammatico che fotograferà, fino ad arrivare alle porte di Berlino liberata.

Due lunghi anni immerso nella crudeltà della guerra immortalata da 8 mila fotogrammi, che lievitano a 20 mila se si prendono in considerazione anche quelli scattati nel 1949, quando lavorava per il Ministero degli Esteri americano a Parigi, e quelle per il giornale delle Forze Armate Americane in Germania “The Stars and Stripes”.

In una lunga intervista rilasciata, Tony afferma a proposito di questo periodo: “Ho visto tanta morte e disperazione durante il conflitto mondiale, e credo che la guerra sia una delle catastrofi umane peggiori; oggi, purtroppo, in tutto il mondo si parla di guerra. Nessun governo nazionale ha mai capito che bisognerebbe istituire un dipartimento della pace e non uno della guerra”.

Una riflessione su quella che è la guerra, in tutte le sue forme, si sente forte nelle sue parole, ma ancor di più nelle sue stesse foto, in quegli scatti sofferti, in quei negativi, che portano con se la strazio di quei momenti.

Successivamente, la carriera di Vaccaro si discosterà dalla crudeltà vissuta fino a questo punto e si dirigerà verso altri temi.

La sua grande esperienza, maturata nel campo della moda, gli permetterà di prendere il volo definitivamente e di conquistare la fama mondiale che tutt’oggi lo caratterizza.

Nel 1963 riceve la Medaglia d’Oro dall’Art Directors’ Club di New York per la migliore fotografia di moda a colori. Tony è il primo fotografo a riprendere una modella di colore.

Collabora con alcune tra le maggiori riviste americane come Flair, Look, Life e Venture e avrà l’occasione di avere davanti al suo obiettivo alcune delle più grandi stelle del cinema, della moda e dell’arte. Tra questi possiamo ricordare Chaplin, Ernst, Peggy Guggenheim, Pollock, Kennedy, Sofia Loren, Anna Magnani, Marcel Marceau, Picasso e tanti altri.

Molti sono anche i riconoscimenti e i premi che comincia a collezionare e ricevere tra cui l’Oscar della fotografia. I libri che diffondono le sue immagini sono 12 e numerose sono le mostre realizzate nei diversi paesi.

Il presidente francese Mittérand gli ha concesso la Legion d’onore.

Con l’Italia e in particolare con il Molise, Tony ha sempre mantenuto vivo un grande affetto e ricordo. Negli anni cinquanta e sessanta soggiorna per lunghi periodi a Roma, da qui torna spesso in Molise per fotografare persone ed aspetti della società contadina, che proprio in quegli anni stava attraversando un periodo di cambiamento e trasformazione.

Nel 2002 torna nella sua Regione di origine per fotografare i paesi colpiti dal terremoto.

In quest’occasione consegna ai cittadini di Bonefro una somma sostanziosa (circa 85mila dollari) per contribuire alla ricostruzione della cittadina post-terremoto. La somma era stata raccolta dall’associazione italo-americana, che lui stesso rappresenta.

La sua permanenza in Italia porta alla realizzazione della mostra “La mia Italia”.

In questa occasione presenta immagini di un’Italia reduce dalla seconda guerra mondiale, una panoramica di quella che è la fase della Ricostruzione. Dal Nord al Sud, casa per casa, anima per anima, i suoi scatti rendono immortale una nuova fase. Dopo tanta crudeltà, l’Italia apre gli occhi sulle macerie, città distrutte, vite spezzate cruentamente, povertà e ferite aperte.

I volti raffigurati esprimono meglio di ogni parola la sofferenza, l’afflizione del momento ma anche una speranza, quella di poter ripartire e ricominciare.

Nel breve saggio che introduce la mostra Italo Zannier descrive lo stile di Vaccaro come “umanista”, lo inserisce quindi nella corrente che ha caratterizzato questo periodo storico e che vede altre personalità di spicco come Donelli, De Biasi, Roiter.

La fotografia umanista nasce in Francia e si caratterizza per la sua grande attenzione nei confronti dell’uomo e della sua vita quotidiana, ritratta con uno stile che è una via di mezzo tra la documentazione e il “realismo magico”. Una ricerca di atmosfere sospese e velatamente surreali, capace di cogliere l’animo umano in un istante e immortalarlo per sempre.

Oltre ad avere ricevuto molti premi e riconoscimenti, le opere di Vaccaro sono presenti in numerose collezioni private e nei più importanti musei del mondo come: il Metropolitan di New York, la George Eastman House di Rochester (NY) e il Centre Pompidou di Parigi.

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Robert De Niro

Il 17 Agosto del 1943 nasce a New York, Robert De Niro. La sua famiglia può vantare origini variegate e una vena artistica, che sicuramente influenzarono le scelte del giovane Robert.

La madre, Virginia Amiral, aveva origini olandesi e tedesche, il padre, invece era figlio di un immigrato italiano (molisano) e di una irlandese.

Entrambi i genitori erano pittori e si dedicavano alla scultura, per questo motivo si iscrissero anche al Greenwich Village.

Nonostante la passione per l’arte li accomunasse il loro matrimonio non durò a lungo e il giovane Robert si trovò a vivere da solo e a crescere ne quartiere di Little Italy.

Proprio in questi anni di grande formazione nel quartiere italiano per eccellenza, che Robert prese il suo retroterra sentimentale verso l’Italia, conoscendone attraverso gli immigrati, cultura e tradizioni.

L’Attore, infatti, è sempre stato fiero della sua origine italiana, tanto da richiedere il passaporto italiano nel 2006.

Come se non bastasse il comune di Ferrazzano, paese di provenienza del bisnonno, ha iscritto De Niro nelle liste elettorali comunali, consegnandogli anche le chiavi della cittadina.

Dal medesimo comune, anni prima (1887), i bisnonni, Giovanni Di Niro e Angelina, partivano verso gli Stati Uniti in cerca di maggiore fortuna.

Nel momento dell’iscrizione all’anagrafe americana, però, per un errore di trascrizione il cognome cambiò da Di Niro a De Niro.

In paese è stata costituita un’associazione in suo onore da una decina di anni, che organizza tutte le estati un festival cinematografico, che porta il suo nome.

Da piccolo però l’Attore non spiccava per doti di grande socializzazione e comunicazione, anzi era minuto gracile e particolarmente bianco di carnagione, tanto da meritarsi il soprannome di Bobby Milk. La sua infanzia pare sia stata caratterizzata da una profonda solitudine e da una timidezza senza pari.

Il suo interesse per il cinema viene fuori lentamente. A dieci anni debutta in teatro nella parte del Leone, nel regno di Oz e a sedici recita nell’Orso di Cechov.

Inizia, così, a frequentare alcuni corsi di recitazione, tra cui un periodo all’Actors Studio con Stella Adler e Lee Strasberg. In questo periodo debutta sui palcoscenici di off-Brodadway colleziona serate di spettacoli e continuando ad andare a scuola.

Negli anni ’60 sbarca nel cinema grazie alla regia di Brain De Palma, con lui gira “Oggi Sposi”, “Ciao America” e “Hi, Mom!”. In Ciao America  riveste il ruolo da protagonista, ma non ha ancora raggiunto la fama odierna.

L’esordio, a dire il vero, risale al 1965 nel film francese in bianco e nero “Tre camere a Manahattan” di Carnè, dove la protagonista è Annie Girardot e De Niro non compare neanche nei titoli.

La sua carriera, però, comincia a tutti gli effetti nel 1973, quando parte il sodalizio con Martin Scorsese. Grazie a lui, De Niro diventa l’attore cult che tutti conosciamo. Ben 11 sono i film che vedono De Niro diretto dal grande regista.

Con “Mean streets”, dove si vede un giovane De Niro al fianco di Harvey Keitel, Robert si guadagna il premio della National Society of Film Critics come miglior attore non protagonista. Da questo momento in poi comincia la sua carriera da grande attore.

Robert De Niro è, quindi, un attore, un regista e un produttore cinematografico, considerato tra i migliori del mondo, grazie alla sua grande capacità interpretativa e alla sua bravura nel presentare personaggi completamente diversi tra di loro.

Nella sua lunga carriera ha avuto modo di lavorare con i più grandi registi in pellicole di enorme successo, tra cui possiamo ricordare Francis Ford Coppola, il già nominato Martin Scorzese, Elia Kazan, Michael Cimino, Bernardo Bertolucci, Sergio Leone, Terry Gilliam, Roger Corman e Brian De Palma.

Ha ricevuto la candidatura per sei volte all’Oscar, vincendolo in due occasioni, nel 1975 come attore non protagonista e nel 1981.

Tra i personaggi, che ha interpretato, spiccano i ruoli da gangster.

Lo vediamo nei panni del giovane Vito Corleone ne “Il padrino –Parte II”, Noodles in “C’era una volta in America”, Jimmy Conway in “Quei bravi ragazzi”. Ha interpretato anche Al Capone nel film “Gli intoccabili” di Brain De Palma.

Una curiosità nel mondo del cinema è che De Niro e Marlon Brandon sono i due soli attori ad aver vinto il premio Oscar per aver interpretato lo stesso ruolo, Don Vito Corleone nella saga Di Francis Ford Coppola.

De Niro lo vinse per il giovane Vito, Marlon Brando invece per la parte dell’anziano Don Vito, in “ Il padrino”, antecedente all’altro.

Nonostante questi ruoli particolarmente drammatici, non è mai venuta a mancare la sua inclinazione verso la commedia, lo si vede infatti in “Re per una notte e Brazil”, fino a giungere negli anni novanta con la serie di “Terapia e pallottole” e “Ti presento i miei”, interpretando nel primo caso un mafioso in crisi esistenziale e nel secondo il suocero ex agente CIA, che rende la vita impossibile al genero.

Il suo lavoro si è sempre caratterizzato per una ricerca quasi maniacale dello studio dei personaggi che interpretava, un perfezionismo estremo che lo ha sempre portato a documentarsi incessantemente su tutto quello che riguardava il ruolo del suo personaggio. Grazie a questo suo modo di fare è riuscito a dare un volto ai più noti travagliati e complessi personaggi portati sullo schermo.

Ricordiamo solo per fare alcuni esempi, Travis in “Taxi Driver”, il pugile La Motta in “Toro scatenato”, per interpretare un umano e complesso Frankenstein di Kenneth Branangh (1994).

Secondo un sondaggio realizzato in Gran Bretagna dal canale televisivo FilmFour Robert De Niro è il miglior attore di tutti i tempi.

Per i 13.000 telespettatori che hanno votato il camaleontico interprete supera di gran lunga tutti i suoi celebri colleghi come Al Pacino, Kevin Spacey e Jack Nicholson.

Bibliografia:

  • Rosanna Bellitto, Robert De Niro, Esedra, marzo 2001
  • Giorgio Nisini, Robert De Niro, Gremese, 2006.

SITOGRAFIA