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LA CIVILTA’ CONTADINA 1800 – 1960

Credits: Frank Monaco, Tony Vaccaro, G. Cucciniello

Una sola idea nuova è penetrata testé, quella dell’emigrazione, la quale aiutata dal fatto di qualche risultato favorevole, poteva divenire minacciante per la prosperità di questi luoghi. Così queste popolazioni non potendo entrare in massa nel gran movimento di idee e di utilità del proprio paese, trovano più comodo mandare esploratori nel nuovo mondo; né sarebbe strano che ove potentemente non fosse aiutato il loro sviluppo e progresso nel luogo ove nacquero, si levino un giorno come uno stormo di uccelli per traversare a schiera l’oceano[1].

Così, in una sua nota, scriveva nei primi anni Settanta del 1800 il prefetto Francesco Contin di Castel Seprio, che all’epoca ricopriva l’incarico di sottoprefetto per la Provincia di Campobasso, analizzando il crescente fenomeno dell’emigrazione.

In particolare, nei comuni del circondario di Isernia iniziavano a scorgersi i primi segnali del fenomeno che segnerà la storia recente della nostra regione. Ed il Prefetto, con lucida obiettività, in sostanza disegnava con queste frasi il quadro di quello che sarebbe stato il cammino dei molisani nel mondo.

La situazione economica e sociale delle Province meridionali (e del Molise in particolare), durante gli  stravolgimenti sociali e politici del 1860, non era sostanzialmente mutata da quella descritta da Giuseppe Zurlo (Baranello CB, 1759 – Napoli, 1828 [2]  Zurlo all’epoca dei fatti ricopriva la carica di Ministro dell’Interno e in riferimento all’applicazione della Legge del 23 ottobre 1809  relativa all’istituzione dei Commissari per la liquidazione degli usi civici [3] ,  diede  una personale interpretazione nel merito della Legge del 2 agosto 1806. Egli sostenne che la legge: abolì le prestazioni personali, tutti i diritti giurisdizionali, le privative, ma conservò ai baroni tutto ciò che essi possedevano per causa del dominio feudale, e di quello che si conservava non fu bastevole ad estinguere quello che la feudalità aveva di odioso, e di pesante per il popolo. La massima parte dei diritti feudali potendo aver l’impronta di prestazioni territoriali, tutto si sostenne come conservato dalla legge, e la feudalità parve per molto tempo abolita di solo nome. Per cui nelle campagne non solo rimase tutto immutato, ma a pagarne le spese fu proprio l’agricoltura. L’agricoltura molisana, come quella della stragrande maggioranza del mezzogiorno d’Italia, visse in un sistema di arretratezza e senza molte prospettive di sviluppo fino ed oltre il miracolo economico italiano degli anni  ’60 (a cui segue come  relazione di causa-effetto: l’abbandono delle attività nei campi e l’allontanamento della popolazione dai centri nativi – si guardi il fenomeno dello spopolamento delle aree interne – per le grandi città industrializzate soprattutto del nord. E qui potremmo iniziare a trattare un altro capitolo della storia dell’emigrazione italiana…).

Le condizioni di vita della quasi totalità dei molisani, in particolare dei contadini, erano pessime, poiché pressoché ridotti alla fame. Nella Provincia erano quasi del tutto inesistenti le strade e i commerci, non c’era un’industria che si poteva considerare tale, c’era solo qualche bottega d’artigianato, mentre, circa il novanta per cento della popolazione era dedita all’agricoltura.

Tutto era retto da pochi signori proprietari di terreni che da secoli avevamo sfruttato ed oppresso il popolo e che continuavano ancora a farlo indisturbati.

Le condizioni economiche dei molisani con l’ascesa e l’affermazione della nuova borghesia terriera, che sostituì l’aristocrazia ed il clero, ancora più rapace ed oppressore dei primi, peggiorarono addirittura. I contadini dopo i tentativi, anche violenti, messi in atto con ribellioni e lotte per la conquista dei terreni demaniali, repressi con il fuoco dalle forze dell’ordine, per liberarsi da questa nuova schiavitù, pensarono di partire sia per la sopravvivenza ma anche alla ricerca della libertà, condizione di fatto duramente negata in patria.

Questa nuova situazione determinò così non solo l’impossibilità di sopravvivenza dei contadini, ma negò loro anche la prospettiva per una migliore condizione economica e sociale. Sulle condizioni economiche e sociali dei contadini e del proletariato meridionale, Benedetto Croce in un suo scritto, nell’affrontare la questione dei rivolgimenti degli anni ’60 si espresse così:

“Il contadino non ha casa, non ha campo non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento: non possiede che un metro di terra in comune nel camposanto. Non ha letto, non ha le vesti, non ha cibo d’uomo, non ha farmaci. Tutto gli è stato rapito o dal prete al giaciglio di morte, o dal ladroneccio feudale o dall’usura del proprietario o dall’imposta del comune o dello stato. Il contadino non conosce pan di grano, né vivanda di carne, ma divora una poltiglia innominata di spelta, segale o melgone, quando non si accomuni con le bestie a pascere le radici che gli dà la terra, matrigna a chi l’ama.”[4] 

La situazione delle classi subalterne, pertanto, era di una tale gravità, sotto il profilo sociale ed economico, che solo una concezione politica del tutto nuova, avrebbe potuto modificarla. Ma purtroppo ciò non avvenne.

Questo divenire che dai primi anni successivi all’Unità d’Italia nei fatti non si è mai interrotto, se non per brevi periodi. Un cammino che ha dato al Molise aiuti, speranze, illusioni, sogni. Desiderio di un avvenire migliore per sé e per la propria famiglia.

Un cammino che ha dato al mondo la grande laboriosità dei molisani che  con tanti sacrifici e con grande tenacia, hanno costruito pezzi importanti della storia mondiale del ‘900: Arturo Giovannitti e la lotta per l’emancipazione della classe operaia negli Stati Uniti d’America. Uomini e donne che hanno faticato non poco ad integrarsi nei remoti approdi del loro migrare: l’Argentina, il Brasile, il Venezuela. Che hanno pagato il tributo più alto e ingiusto, in condizioni di lavoro disumane, e spesso con la vita, come testimoniano le grandi tragedie che hanno segnato il cammino: Monongah, Marcinelle… (Antonio D’Ambrosio).

Consulenza tecnica: Luca Basilico

Supervisione: Giulia D’Ambrosio

 

 

 

[1] Fonte: AS CB, Prefettura Gabinetto I, b. 46, f. 1221

[2]  [3]   Rapporto sullo stato del regno di Napoli dopo l’avvenimento al trono di S. M. il re Gioacchino Napoleone per tutto l’anno 1809- Napoli- 1811

[4] Benedetto Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, 1925 pagg. 337,338.

Tony Vaccaro

Nasce negli Stati Uniti a Greensburg (Pennsylvania) il 4 Dicembre del 1922 da una famiglia di emigranti molisani uno tra i maggiori fotografi del mondo,

Tony Vaccaro, nome d’arte di Michelantonio Celestino Onofrio Vaccaro, rientra in Molise all’età di 7 anni, insieme alla madre e la sorella per una visita ai parenti.

La sua vita, però, prende un’improvvisa deviazione e il soggiorno, che doveva essere di pochi giorni a Bonefro, si trasformò in una permanenza di anni nel paesino di origine dei genitori.

La causa scatenante fu la morte improvvisa e oscura prima della madre e poi del padre a poca distanza l’uno dall’altro.

Questo drammatico evento lo terrà fermo nel Molise fino ai 17 anni, quando lo Stato americano lo richiama per il servizio militare.

A Bonefro, pertanto, trascorre l’adolescenza di Tony Vaccaro. Un’esperienza esistenziale  da cui nasce un profondo legame tra lui e la «sua terra» molisana e tra lui e gli uomini di quella terra, segnando non solo la sensibilità dell’uomo, ma anche una parte importante della sua futura produzione artistica.
Vaccaro comincia a interessarsi di fotografia quando frequenta il liceo.  È tra i primi  utilizzare una tecnica fotografica basata sulla velocità di scatto della macchina nel tentativo di cogliere le “reali” e spontanee espressioni dei soggetti.

Nel 1939 torna negli Stati Uniti per adempiere al suo dovere. Tornato nel nuovo mondo si fermerà a New Rochelle (NY), presso parenti, dove frequenta alcuni corsi di studio, tra cui quello di fotografia.

Da questo momento in poi la sua passione e il suo amore verso quest’arte cresceranno sempre di più. Proprio grazie a questa sua inclinazione, chiamato alle armi, ottiene di svolgere nella sua compagnia il ruolo di fotografo.

Un’esperienza forte e crudele che, non solo gli permetterà di accumulare un patrimonio fotografico notevole e di grande valore, ma che lo segnerà a livello personale, facendone il testimone privilegiato dell’atrocità umana.

Con l’US-Army, all’inizio della seconda guerra mondiale, ritorna in Europa.

Lo sbarco in Normandia è il primo evento drammatico che fotograferà, fino ad arrivare alle porte di Berlino liberata.

Due lunghi anni immerso nella crudeltà della guerra immortalata da 8 mila fotogrammi, che lievitano a 20 mila se si prendono in considerazione anche quelli scattati nel 1949, quando lavorava per il Ministero degli Esteri americano a Parigi, e quelle per il giornale delle Forze Armate Americane in Germania “The Stars and Stripes”.

In una lunga intervista rilasciata, Tony afferma a proposito di questo periodo: “Ho visto tanta morte e disperazione durante il conflitto mondiale, e credo che la guerra sia una delle catastrofi umane peggiori; oggi, purtroppo, in tutto il mondo si parla di guerra. Nessun governo nazionale ha mai capito che bisognerebbe istituire un dipartimento della pace e non uno della guerra”.

Una riflessione su quella che è la guerra, in tutte le sue forme, si sente forte nelle sue parole, ma ancor di più nelle sue stesse foto, in quegli scatti sofferti, in quei negativi, che portano con se la strazio di quei momenti.

Successivamente, la carriera di Vaccaro si discosterà dalla crudeltà vissuta fino a questo punto e si dirigerà verso altri temi.

La sua grande esperienza, maturata nel campo della moda, gli permetterà di prendere il volo definitivamente e di conquistare la fama mondiale che tutt’oggi lo caratterizza.

Nel 1963 riceve la Medaglia d’Oro dall’Art Directors’ Club di New York per la migliore fotografia di moda a colori. Tony è il primo fotografo a riprendere una modella di colore.

Collabora con alcune tra le maggiori riviste americane come Flair, Look, Life e Venture e avrà l’occasione di avere davanti al suo obiettivo alcune delle più grandi stelle del cinema, della moda e dell’arte. Tra questi possiamo ricordare Chaplin, Ernst, Peggy Guggenheim, Pollock, Kennedy, Sofia Loren, Anna Magnani, Marcel Marceau, Picasso e tanti altri.

Molti sono anche i riconoscimenti e i premi che comincia a collezionare e ricevere tra cui l’Oscar della fotografia. I libri che diffondono le sue immagini sono 12 e numerose sono le mostre realizzate nei diversi paesi.

Il presidente francese Mittérand gli ha concesso la Legion d’onore.

Con l’Italia e in particolare con il Molise, Tony ha sempre mantenuto vivo un grande affetto e ricordo. Negli anni cinquanta e sessanta soggiorna per lunghi periodi a Roma, da qui torna spesso in Molise per fotografare persone ed aspetti della società contadina, che proprio in quegli anni stava attraversando un periodo di cambiamento e trasformazione.

Nel 2002 torna nella sua Regione di origine per fotografare i paesi colpiti dal terremoto.

In quest’occasione consegna ai cittadini di Bonefro una somma sostanziosa (circa 85mila dollari) per contribuire alla ricostruzione della cittadina post-terremoto. La somma era stata raccolta dall’associazione italo-americana, che lui stesso rappresenta.

La sua permanenza in Italia porta alla realizzazione della mostra “La mia Italia”.

In questa occasione presenta immagini di un’Italia reduce dalla seconda guerra mondiale, una panoramica di quella che è la fase della Ricostruzione. Dal Nord al Sud, casa per casa, anima per anima, i suoi scatti rendono immortale una nuova fase. Dopo tanta crudeltà, l’Italia apre gli occhi sulle macerie, città distrutte, vite spezzate cruentamente, povertà e ferite aperte.

I volti raffigurati esprimono meglio di ogni parola la sofferenza, l’afflizione del momento ma anche una speranza, quella di poter ripartire e ricominciare.

Nel breve saggio che introduce la mostra Italo Zannier descrive lo stile di Vaccaro come “umanista”, lo inserisce quindi nella corrente che ha caratterizzato questo periodo storico e che vede altre personalità di spicco come Donelli, De Biasi, Roiter.

La fotografia umanista nasce in Francia e si caratterizza per la sua grande attenzione nei confronti dell’uomo e della sua vita quotidiana, ritratta con uno stile che è una via di mezzo tra la documentazione e il “realismo magico”. Una ricerca di atmosfere sospese e velatamente surreali, capace di cogliere l’animo umano in un istante e immortalarlo per sempre.

Oltre ad avere ricevuto molti premi e riconoscimenti, le opere di Vaccaro sono presenti in numerose collezioni private e nei più importanti musei del mondo come: il Metropolitan di New York, la George Eastman House di Rochester (NY) e il Centre Pompidou di Parigi.

SITOGRAFIA